Questo lockdown concluso da poco non è stato facile per nessuno, lo abbiamo letto e sentito da ognidove, soprattutto per gli operatori sanitari, che hanno continuato a lavorare, esposti a maggior rischio di contagio.
Noi, chiusi in casa in modalità Smart-working, o con i bambini che assistevano alle videolezioni, e tutti lontani per un po’ dai nostri cari. Insomma, davvero una dura prova per il mondo intero.
Abbiamo parlato della difficoltà dei bambini e degli adolescenti, degli anziani, ma non abbiamo sentito molto parlare della difficoltà di chi già combatteva con una malattia spesso cronica, una malattia che correva anche quando tutto era fermo.
Il paziente oncologico è una persona che sta seguendo un percorso di cure, percorso segnato da diverse fasi. Quando i sospetti si trasformano in realtà, ossia nel momento successivo alla comunicazione della diagnosi, inizia la fase di “crisi” vera e propria, quella tempesta emotiva che colpisce e travolge la persona in maniera dirompente con le reazioni più disparate, che vanno da uno shock iniziale, a una fase depressiva, fino ad arrivare a una fase di riorganizzazione (secondo il modello di Biondi, Grassi e Costantini, ripreso da quello di J. Bowlby).
Dunque, il paziente oncologico è una persona che la crisi l’ha già passata, spesso l’ha attraversata e superata. Non sappiamo in che momento del suo percorso di cure si trovasse quel paziente nel lockdown, ma di certo si è sentito solo, abbandonato, costretto a dover lottare contro quella malattia subdola, che avanzava, quando invece il mondo si fermava, ma lui voleva continuare a correre per vincere la sua battaglia personale.
La ricerca psicologica ha introdotto il concetto di coping, per sottolineare che esistono differenti modalità con cui le persone fanno fronte ad eventi stressanti, soprattutto quando questi significano “minaccia” per la propria vita. A volte prevale il sentimento di colpa, se la malattia viene vista come una punizione, oppure una reazione di sfida, se il cancro viene visto come un nemico da combattere. Questo per dire che ognuno, a seconda della fase in cui si trova del suo percorso di cure e in base al proprio stile di coping, avrà affrontato in modo diverso il lockdown.
Ma da un’indagine condotta dalle associazioni Salute donna Onlus e Salute uomo Onlus, che ha coinvolto 774 pazienti su tutto il territorio nazionale, sono emersi diversi bisogni comuni. Il progetto “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere” ha suscitato reazioni controverse tra le autorità sanitarie nazionali.
I dati, però, parlano chiaro: il 36% dei pazienti ha lamentato la sospensione di esami e di follow-up. Un paziente su 5 ha segnalato la sospensione degli esami diagnostici, fondamentali per intraprendere poi il percorso di cura.
La paura del contagio si è fatta sentire in modo più forte nei pazienti oncologici, a causa della loro esposizione in ambienti ospedalieri, (16%) con la sensazione di non avere le adeguate protezioni in ospedale (21%).
Il rischio maggiore per la propria salute avvertito dai pazienti in questa situazione di emergenza è la condizione di immunodeficienza (47% delle risposte). È chiara la sensazione di fragilità che accomuna tuttora questi pazienti.
L’unico motivo di sollievo è stata la grande attivazione da parte di associazioni o di professionisti individuali a dare sostegno psicologico a distanza, sia ai pazienti che ai loro familiari, perché non dobbiamo dimenticare che il cancro è una malattia che colpisce non solo il paziente, ma tutto il nucleo familiare.
In qualità di Psiconcologa, ho raccolto diverse testimonianze di persone da me seguite in questo periodo, che hanno tirato fuori grandi capacità di resilienza, l’adattamento psicologico efficace di fronte alle avversità, che proprio non credevano di possedere. C’è chi si è avvicinato per la prima volta nella sua vita a modalità di comunicazione telematiche come Skype o videochiamate, viste come unico mezzo per approfondire la propria situazione interiore e uscire dalla solitudine in cui versava. C’è chi, adolescente, si è ritenuto fortunato, in quanto da sempre utilizzava i social e la tecnologia, e dunque non aveva problemi, ora, a connettersi col mondo intero.
“Molte pazienti si sono sentite fragili, più esposte al rischio del contagio, trascurate e, addirittura, qualcuna, abbandonata, visto che la loro necessità di continuità di cura è stata negata. Il virus ha monopolizzato la scena, ma il resto delle malattie non è andato in vacanza”, afferma il dott. Varvaras, Direttore della Breast Unit della casa di cura Nuova Villa Claudia, a Roma. È proprio così. E preso atto della situazione attuale ci uniamo al chirurgo per mostrare la nostra vicinanza a chi sta lottando ogni giorno, con tutte le sue forze, contro un tumore.
Nuovi scenari si stanno prospettando ora, alla luce della riapertura, come quelle condotte dall’ ARTOI (Associazione Ricerca Terapie Oncologiche Integrate) che mette a disposizione locali all’aperto per le attività di Mindfulness e di Chi-cung, condotte in gruppo da esperti.
Molti di noi professionisti si stanno interrogando e stanno ripensando a come stare vicino ai nostri pazienti, sfruttando altri codici espressivi, costruendo il contatto e la vicinanza in altri modi, visto che gli spazi sociali sono stati alterati da distanziamenti e limiti, soprattutto negli spazi interni.
Far sentire l’importanza della relazione, dello straordinario potere nutriente dei legami, di come nessuno sia indipendente e autosufficiente, rassicura il paziente in quanto questa in cui ci siamo trovati è una situazione che accomuna tutti, nessuno escluso.
Se è vero che il supporto sociale riduce il rischio di malattia, come dimostrato da un’ampia letteratura scientifica, allora è anche vero che funge da fattore protettivo in situazioni in cui la malattia è già presente.